di MASSIMO DI CENTA
Cristian Cianciotta, classe 1973, è stato un centrocampista dai piedi buoni. Banale come definizione, soprattutto perché non rendo merito a uno come lui, sufficientemente in gamba da cavarsela in molti ruoli diversi. Forse, allora, sarebbe meglio definirlo… tuttocampista!
La sua carriera calcistica prese avvio nel Rapid, dove faceva faville assieme al compagno di squadra Raffaello Muser: i due spiccavano nel gruppo ed infatti il Tolmezzo pensò bene di tesserarli. Con la squadra del capoluogo carnico, Cristian fu un punto di forza della formazione juniores, arrivando anche all’esordio, ancora giovanissimo, con la prima squadra. Impegni di lavoro, però, lo costrinsero ben presto a ”ripiegare” sul Carnico, torneo con un impegno più a misura delle proprie esigenze.
Non è stata una carriera lunga, la sua, nel nostro campionato, eppure ha lasciato segnali importanti. La prima esperienza lo portò a Verzegnis, dove nell’anno del suo arrivo la squadra conquistò la promozione in Prima categoria. L’anno successivo arrivò quella che lui stesso definisce la sua più grande delusione, con un autentico squadrone che fini col retrocedere. La società non pensò a tesserare un portiere di riserva e quando dopo poche giornate De Corti, l’unico portiere, si infortunò, la squadra rimase senza numeri unoi, tant’è vero che la domenica doveva andare in porta chi se la sentiva. Alla fine il Verzegnis retrocesse.
Il successivo approdo a La Delizia gli regalò una quasi promozione, sfumata all’ultima giornata, proponendogli così un’altra delusione. Nell’ultima apparizione nel Carnico vestì la maglia rossoblu dell’Arta e questa forse, a livello di risultati, resterà l’esperienza più affascinante, con la conquista della Coppa Carnia nel 1998. Una finale intrisa di agonismo e sentimento. La decise Stefano Micelli e il suo fu un gol carico di significati: qualche giorno prima aveva perso il papà e quel gol ebbe una dedica ben precisa, con Stefano in lacrime a fine partita. In quella finale il “Ciancio” fu semplicemente mostruoso: alla delicatezza di tocco che contraddistingueva le sue giocate, seppe abbinare un apporto dinamico e tattico di enorme spessore: quella sera il campo di Villa sembrava disseminato da una serie di tombini, da ognuno dei quali pareva uscire lui, per fermare i giocatori avversari e proporre l’azione per i suoi. Una partita da 9, come certificò il Gazzettino nelle pagelle del giorno dopo.
Quella con l’Arta fu l’ultima stagione, perché poi gli impegni di lavoro non permettevano più quell’impegno costante che un perfezionista come lui pretendeva da sé stesso. Il passaggio dal servire assist a pietanze di qualità fu praticamente immediato!
Degli anni di Carnico gli restano comunque bellissimi ricordi. La migliore partita? La finale di Coppa del 1998 vinta, come detto contro la Velox. Il gol più bello? In un’Ovarese-Arta: su respinta della difesa avversaria si inventò una conclusione al volo da fuori area con una mezza torsione ed una conclusine col destro che mandò la palla nel sette opposto. Curiosamente, fece un gol quasi identico allo stesso portiere, qualche anno dopo, nel campionato Amatori. Un campionato intrapreso per saziare la sua passione per il calcio che non è mai venuta meno, fatto testimoniato anche dal suo impegno col calcio a 5. A tal proposito ricorda, con una punta d’orgoglio, che è stato proprio lui a portare in Carnia questa disciplina.
E poi ancora ricordi, tanti: nell’anno della promozione col Verzegnis, al termine della festa promozione, all’uscita del bar in cui si celebrava l’evento trovo un enorme cuore in mezzo alla strada con la scritta “Ciancio, resta con noi”, con i tifosi preoccupati della corte che gli facevano altre squadre.
E poi il tributo ad ogni allenatore che ha avuto: Vittorino Di Gleria, grande carattere e temperamento paularino; Maurizio Tosoni, col quale amava disquisire di calcio e cucina (le sue grandi passioni); Virginio Zigotti, del quale ammirò il coraggio per essersi preso la responsabilità di guidare una squadra appena smessi i panni di calciatore; Marino Corti, ritenuto da lui il tecnico più completo tra tutti quelli che ha avuto. Ma la cosa che più gli piace sottolineare è il fatto di essersi sentito come in famiglia in ogni squadra in cui ha militato, un modo genuino per dimostrare il proprio senso di appartenenza ad un ambiente.
E il Carnico è rimasto nel suo cuore: non lo segue magari dal vivo (si concede solo qualche partita di cartello) ma è informatissimo sulle vicende del campionato. E un pochino si dice dispiaciuto perché lo trova molto diverso da quando giocava. Nel bar che gestisce attualmente (il “Dolceamaro”, nel centro direzionale di Tolmezzo) l’argomento calcio non manca mai e lui, per far fede al nome del suo locale, ha un atteggiamento con un pizzico di dolce (i ricordi) e uno di amaro (attualità e prospettive).
Lo spirito critico (ma una critica sempre positiva) lo porta a considerazioni anche condivisibili: sente parlare di calcio molto spesso da dirigenti con i capelli bianchi e vorrebbe che i giovani avessero una passione tale da potersi sentire parte integrante di una società, essere animati da quel senso di appartenenza che ti fa sentire protagonista, indipendentemente dai risultati ottenuti. Condizione necessaria per quel cambio generazionale che serve per portare avanti qualsiasi tipo di discorso.
Così come superare il concetto del campanile: bellissimo qualche anno fa, quando i paesi erano pieni di giovane, quasi impossibile oggi, con il decremento demografico che fa chiudere locali e scuole, per esempio. Se i numeri non ci sono, dice Cianciotta, meglio puntare sulla qualità: squadre di vallata, che renderebbero il torneo più breve, ma tecnicamente più godibile.
Qualità, sempre e comunque, come il suo caffè che ti prepara sempre con un sorriso e un discorso sul calcio. E quella finale, a Villa, nel 1998, che spesso torna nei discorsi di chi l’ha vista: che partita, il “Ciancio”, quella sera!