Vecchi leoni: Palmiro Savoldelli

di MASSIMO DI CENTA

Palmiro Savoldelli, classe 1967. Oppure solo classe, e basta, perché lui è uno di quelli per i quali la parola classe va aldilà del dato anagrafico. Quando si parla di giocatori di classe, si pensa alla bellezza del gesto tecnico, alla giocata di fino. Invece, in questa parola vanno messe anche altra qualità: la capacità di lasciare ricordi come segni importanti, per esempio, il portamento ed il comportamento in campo, l’adeguatezza al ruolo ricoperto. Tutte caratteristiche che gli si addicono ed è per questo che Palmiro Savoldelli, ad anni di distanza dal suo addio al calcio, è ricordato come un giocatore di classe, appunto. Centrocampista abilissimo nelle due fasi (rottura e impostazione), carattere a sufficienza e un tiro da fuori spesso vincente. Destro naturale, ma all’occorrenza sapeva usare (eccome…) anche il sinistro.

La sua carriera inizia nel settore giovanile della Folgore, dove gioca fino alla categoria Allievi, prima di passare al Villa. Seguono i cinque anni alla Gemonese, sacrificata per la scelta di provare a fare la carriera militare: elicotterista, con il futuro in volo stroncato dalle raccomandazioni che qualcun altro aveva e lui no. Dalle pale dell’elicottero alle… palle del Carnico, dove, dopo tre anni di illusioni, tornò per vestire le maglie di Moggese, Trasaghis e poi la Folgore, per finire il cammino agonistico proprio dove lo aveva iniziato.

Più che la partite, le vittorie o le sconfitte, di quegli anni Savoldelli ricorda le persone (tecnici, compagni di squadra ed avversari), ancora figure vivissime nella sua memoria. Nel sentirlo parlare di quelle persone, capisci che la stessa classe che dimostrava in campo l’ha portata pari pari nella vita. Il ricordo di Carmine Sbordone, per esempio, gentiluomo di una volta, del quale ricorda lo spessore umano e la grande capacità di essere una specie di padre per tutti i giocatori. La definizione di “maestro di vita più che un semplice allenatore” che ha dato dell’ indimenticato Carmine è davero un gesto di grande nobiltà d’animo. Ma anche Otello Petris trova spazio nei suoi ricordi: “Un sergente di ferro, uno che ti martellava per spremere il meglio dai propri giocatori. Negli spogliatoi era capace di prenderti per il colletto della maglietta ed attaccarti al muro, ma in senso vero, non figurativo. Ti trasmetteva però l’adrenalina giusta per entrare in campo e sentirti un leone”. A livello puramente tecnico, però, il tributo più grande lo riserva a Carletto Damiani, da lui definito non un grande psicologo, ma con grandi capacità tecniche, uno di quelli in grado di “leggere” la partita come pochi. Un perfezionista che “insegnava” calcio anche a giocatori ormai maturi.

Per quanto riguarda i giocatori, si dice fortunato per aver potuto giocare, a livello di Rappresentativa, con gente che poi ha fatto una carriera importante: Maurizio Ganz, del quale ricorda soprattutto la determinazione, dote necessaria per arrivare dove è arrivato nonostante un fisico non certo da granatiere; Luca Gonano, ritenuto un fenomeno dal punto di vista tecnico e dotato di un’intelligenza calcistica decisamente sopra la media; Cleto Polonia, piedi magari non nobilissimi, ma uno scatto, una grinta, una prestanza fisica che gli ha permesso di sviluppare quel senso dell’anticipo che distingue i difensori forti.

Del periodo del Carnico, più che un gol (ne ha fatti comunque una cinquantina) ricorda un gesto tecnico. Nella finale di Coppa Carnia del 1985 persa contro il Cedarchis, una sua rovesciata all’interno dell’area di rigore fu ricacciata dalla porta dal portiere giallorosso Giovanni Zagaria, il quale a distanza di anni, ogni volta che incontra Palmiro gli mima il gesto della mano che va a togliere il pallone dal sette. L’avversario più ostico è stato Giacomo Baron, uno di quelli coi quali combatteva tra le zolle del centrocampo e non gli dava tregua: rude ma corretto, leale e mai sopra le righe.

Adesso segue ancora il Carnico, con una logica preferenza affettiva nei confronti del Villa, ma è impegnato anche dalla carriera del figlio Luca, trascorsi nelle giovanili dell’Udinese e in serie D col Casale. Attualmente gioca a Dellach, serie C austriaca, squadra di un paese di poche anime che è arrivata in alto grazie ad un tifoso fortunato e generoso. Questo qualche anno fa, ha vinto alla lotteria austriaca una cifra ragguardevole, parte della quale è stata impiegata per finanziare la squadra del paese.

Sul Carnico di oggi va controcorrente: rispetto alla convinzione generale, ritiene che ci sia molta più tecnica che ai suoi tempi, valorizzando il lavoro degli allenatori attuali, che insegnano molto i fondamentali e curano il dettaglio. A fare la differenza, forse, è la minor dedizione, il fatto di non voler fare sacrifici come si facevano ai suoi tempi.

E poi è lì, in attesa che gli si accenda la scintilla dell’ispirazione: vuole tirare fuori dal cassetto non un sogno, ma quel diploma di allenatore Uefa B conseguito qualche anno fa e rimasto lì, in attesa appunto di quella scintilla, per allenare una squadra giovanile. E insegnare calcio, con classe, la sua: quella di Palmiro Savoldelli, classe 1967. Anzi, classe. E basta.

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