di MASSIMO DI CENTA
Silvano Della Pietra è stato l’arbitro per eccellenza espresso dal Carnico: una carriera che avrebbe potuto portarlo in serie A se Agnolin… Rileggiamo quanto lui stesso scrisse per il libro “60 anni di Carnico”, uscito nel 2010, raccontando la sua storia, fatta di quasi 5000 partite dirette. E tutte racchiuse in un quaderno, carico di ricordi e passione.
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Il mio approccio al mondo arbitrale avviene nel 1977, anno in cui mi iscrivo al corso per arbitri organizzato a Tolmezzo da Franco D’Orlando. Ricordo ancora la mia prima partita, Virtus Tolmezzo – Fornese disputata a Caneva di Tolmezzo. La solita trafila e poi passo ad arbitrare il Carnico dei grandi. Devo dire che non ha mai avuto grandi contestazioni: ho sempre cercato di privilegiare il buon senso, a volte dialogando e a volte facendo finta di non sentire, perché ammonizioni ed espulsioni non devono essere un deterrente ma la giusta punizione in caso di regole non rispettate.
Il giocatore del Carnico più rompiscatole? Glauco Di Ronco del Cedarchis: fingeva di accettare con serenità le decisioni arbitrali, ma poi lo sentivi borbottare dietro di continuo. Non offendeva mai, ma si lasciava andare ad allusioni precise: «Non facciamoci innervosire da nessuno» ripeteva ai compagni e quel “nessuno”, in realtà, era un qualcuno ben preciso! Ora che ci penso, però, una contestazione l’ho subita: si era giocato il derby tra Arta e Cedarchis ed un tifoso giallorosso mi inseguì in macchina dopo la partita. A Zuglio riuscii a seminarlo, cosa che feci il giorno dopo anche in cartiera, dove lavoravo, nei confronti di un altro che mi pedinò per tutta la fabbrica senza riuscire a scovarmi. Tra le gare più tese, invece, ricordo un derby di Coppa tra Velox e Trelli: forse la partita in cui ho ammonito di più in tutta la mia carriera. Si era ad inizio stagione e nessuno aveva intenzione di tirare indietro la gamba; il tutto nella cornice del campo vecchio di Paularo, con la gente praticamente a mezzo metro dal campo oltre la rete. Questo ti aiutava a mantenere la concentrazione e a non distrarti mai.
Sono stati bei tempi, dove ho conosciuto tante persone ed io sono dell’idea che arbitrare le persone che ti conoscono rappresenti un piccolo vantaggio. E’ una cosa che non mi ha mai condizionato, anzi, proprio perché conoscevo la maggior parte dei giocatori potevo instaurare con loro una forma di dialogo molto proficua ai fini di una direzione di gara serena. Già a quei tempi era un calcio che si stava velocizzando, quindi, c’era bisogno di essere sempre in forma. Mi allenavo da solo, correndo per i campi e per i boschi della Carnia; poi, decidemmo di riunirci con altri arbitri della sezione tolmezzina, come i poveri Stefano Fachin e Iolindo Scarsini, con Enzo Di Gallo, Marco Petrini, Alberto Miniussi. Era anche l’occasione per confrontarci, per parlare dei problemi che incontravamo la domenica. Nel frattempo i buoni voti che attribuivano i vari Commissari presenti alle partite mi garantirono il passaggio agli “scambi”, una categoria vicina al calcio semiprofessionistico. Mi toccava partire per andare in Veneto, Lombardia, Piemonte ed a muovere tutto era la passione, perché i guadagni erano davvero poca cosa. Un esempio? Un Padova – Brescia del campionato Primavera valeva 180.000 lire, oppure un Milan – Cremonese dello stesso torneo mi fruttava 250.000 lire. In quel compenso, però, ci dovevano stare le spese di viaggio, la notte in albergo la sera prima della partita ed il pranzo.
La partita che attirò su di me le attenzioni del mondo arbitrale fu Casale – Como, sfida di C 1 tra la prima contro la seconda in campionato. La affrontai con serenità e voglia di far bene e l’8 che mi riservò La Gazzetta dello Sport mi fece capire che, insomma, non me l’ero cavata male, anzi… Di questo parere fu anche Luigi Agnolin, ex arbitro internazionale e a quel tempo designatore per la serie C. Mi “regalò” un’amichevole di lusso tra Padova e Real Madrid. Stavo andando bene, insomma, e la gente della Carnia non mancava mai di farmi sentire il suo incoraggiamento ed un pizzico di soddisfazione, perché in fondo mi sentivano uno di loro. Nel momento in cui stavo per fare il salto di qualità definitivo, Agnolin entrò in contrasto con Matarrese, presidente federale: l’arbitro veneto non aveva tra le sue doti la diplomazia che invece era molto importante. E lo capii quando dopo aver ricevuto un premio dallo stesso Matarrese a Firenze («Bravo, continua così», mi disse) vidi un rallentamento nella mia carriera. Di lì a poco diedi le dimissioni: avevo capito che quel mondo non era per me, perché a decidere chi doveva andare avanti e chi no non era la capacità di arbitrare, ma la fortuna di avere la raccomandazione giusta.
C’erano di mezzo politici, ecclesiastici, gente di potere: ed io cosa potevo pretendere? Arbitrare mi piaceva, ma tutto quello che potevo esibire erano quei principi che mi portavo dietro dal Carnico: l’onestà, la limpidezza, la semplicità della mia terra. Il Carnico è stato un’ottima palestra e per questo lo ricorderò sempre con piacere e gratitudine.
I miei attuali colleghi nel Carnico? Non sta a me giudicarne l’operato, però posso dire che un pizzico di umiltà in più non guasterebbe. Non mi sento di dare consigli, però c’è un particolare che in molti trascurano. Qual è lo strumento di un arbitro? Il fischietto. E allora adopriamolo bene questo fischietto! Il fischio di un bravo arbitro non deve essere né troppo breve né troppo lungo, ma deve trasmettere sicurezza e personalità. Una buona direzione di gara, insomma, inizia proprio dal modo di fischiare: deve essere come la colonna sonora di un film: appropriata alla trama!