Ci ha lasciato oggi a 78 anni Enzo Cainero, un gigante del Friuli.
Cainero amava il Campionato Carnico, vinse anche lo scudetto con il Paluzza nel 1968, ruolo portiere. Riproponiamo quanto aveva scritto per il libro “60 anni di Carnico” di Renato Damiani e Massimo Di Centa.
Il calcio è stata una parte importante della mia vita. La mia carriera era iniziata a Varese, serie A: ero giovane e pieno di sogni, sogni infranti contro un palo. I pali delle porte quelle volte erano quadrati e prenderne uno con un rene non fu affatto un bella esperienza. Quell’infortunio mi costò diversi mesi di inattività e significò la fine della mia carriera ad alti livelli.
Mi ero tolto già qualche piccola soddisfazione, come quella di vestire la maglia della Nazionale: era la Nazionale militare e ne difesi la porta in un quadrangolare disputato ad Aosta. Il servizio militare mi portò in Nazionale ma anche a Pontebba. Caserma “Fantina”: lì mi assegnarono il comando di un distaccamento in montagna. Tra una marcia ed un rancio, però, non mi ero dimenticato del pallone e così quando mi si presentò l’occasione tornai a giocare. La serie A era un ricordo lontano, ma la passione non ha categorie. E così quando mi chiamarono per giocare a Paluzza accettai con grande entusiasmo.
Nella valle del But arrivai su richiesta di Angelo Ortobelli: non so chi gli fece il mio nome, fatto sta che ho trascorso un periodo bellissimo. Non mi allenavo mai, perché durante la settimana dovevo servire la patria, mentre la domenica ero sempre disponibile a servire il Paluzza! Lasciavo il comando del distaccamento ad un sergente e io via a Paluzza. Viaggi e rientri erano un bel sacrificio, ma a vent’anni è tutto bello e vivi le cose con l’entusiasmo tipico dell’età. Compagni di viaggio erano Bruno Capitanio, Claudio Pasqualin, Gianni Marchiol, Andrea Fuccaro, tutti con la mia stessa passione.
Non c’erano molti carnici in quel Paluzza, ma quei pochi erano davvero tosti, credevano in ciò che facevano e si erano posti un traguardo da raggiungere. Ci avevano accolto con grande cordialità e noi apprezzavamo ogni loro gesto, ogni loro iniziativa. Di quell’annata conservo tre lampi, brevi, ma intensi: la partita di Ampezzo, forse la migliore in assoluto che ho disputato nel Carnico. Quel giorno potevano tirarmi le cannonate: avrei parato anche quelle! Al contrario andò quella di Moggio, dove perdemmo 1 a 0, per causa esclusivamente mia. Fu uno dei viaggi di ritorno a Pontebba più tristi: mi rivedevo davanti agli occhi quel tiro beffardo che, rotolando, mi passò tra le gambe ed il mio goffo tentativo di pararlo. Chi ha giocato in porta sa cosa si prova e a me sembra di vedere ancora il sorrisino di Otello Petris a fine partita: non era di scherno, ma un misto tra soddisfazione per la vittoria ed incredulità per come era maturata. Il terzo flash è quello più importante: la domenica in cui vincendo lo spareggio contro il Cavazzo conquistammo il titolo. I ricordi della partita sono sovrastati dall’immagine di un campo sportivo pieno di gente. Non credevo che una partita del Carnico potesse attirare tanta gente e questo mi dette modo di considerare ancora più bello ed importante quel campionato vinto.
In quel Paluzza c’erano persone magnifiche: Firmino Lazzara, per esempio, disponibile, gentile ed appassionato. Non c’era nemmeno bisogno di chiedergliele le cose, perché lui un attimo prima ci aveva già pensato; poi, Angelo Ortobelli. Lui quello scudetto l’aveva voluto più di ogni altro: si era esposto in prima persona e la sua costanza, la sua presenza assidua in ogni dettaglio di quel Paluzza erano la prova di quanto ci tenesse. E come potrei dimenticare il grande Lucio Englaro, guerriero della difesa e persona di grande spessore? L’unico rammarico è di non aver potuto frequentare quelle persone un po’ di più: qualche caffè al “Bar alla Posta”, nei pre o nei dopo partita e poi dovevo tornare a Pontebba. Ma la Carnia mi era rimasta dentro e così quando Bepi Clozza, factotum del Tolmezzo una sera mi chiamò e a bruciapelo mi dice «Enzo, devi tornare a giocare!» gli rispondo «Ma sestu mat!».
In quella risposta c’era già tutto e Bepi non era matto, altroché se non era matto. Aveva capito che la Carnia era il mio punto debole e su quello aveva basato il senso della sua richiesta. Era l’anno del terremoto ed il portiere del Tolmezzo, Gianni Forgione, era scappato dal Friuli, terrorizzato dal sisma. Quei due anni sono ancora qui, nella mia memoria e quando li ricordo ancora mi emoziono. Il dopo terremoto imponeva ritmi lavorativi elevati e per gli allenamenti non avevo molto tempo. Non era mica come quando avevo 20 anni, con la mente libera ed il corpo allenato dalle marce in montagna. Ma la passione era talmente forte che dopo una giornata di lavoro ci ritrovavamo assieme ad altri amici ad allenarci al “Bearzi” con poca luce, ma tanta passione.
Ero il secondo di Giordano Tonut ed in due anni misi insieme una decina di presenze da titolare. Il fatto di giocare non era così importante, importante era aver avuto l’occasione di poter approfondire rapporti con gente come Enzo Zearo, Guido D’Orlando, Gino Menegon, Maurizio Straulino e Fabio Macuglia.
Adesso la Carnia è ancora nel mio cuore: girando in bici per scovare percorsi per il Giro d’Italia ho avuto la possibilità di ammirare scorci meravigliosi e campi di calcio splendidi. Quello in “Curiedi”, per esempio, un impianto che sarebbe adattissimo per tornei, stage e manifestazioni simili. Vorrei che i carnici capissero quanta potenzialità hanno fra le mani. Il Carnico è già una ricchezza, perché è inserito nel tessuto sociale più di quanto possa riuscire una qualsiasi manifestazione sportiva.
Eccolo qua il mio Carnico, la mia Carnia, con luoghi, eventi e persone che mi stano sempre nel cuore ed una casa a Chialina di Ovaro che vorrei abitare molto più spesso di quanto non possa fare. Vorrei essere ricordato non per quello che ho fatto e che spero di poter fare per la Carnia, ma per il bene che ho voluto, voglio e vorrò a questa straordinaria terra!
(in copertina il Paluzza campione carnico 1968: Cainero è il primo in piedi da destra)