Carnico Story: il Sutrio degli anni ’80

di MASSIMO DI CENTA

Dal libro “60 anni di Carnico”, uscito nel 2010, ripercorriamo le gesta della squadra dominatrice degli anni ’80, il Sutrio.

Si è chiamato CAMS ed anche (come adesso) Mobilieri, ma nelle discussioni o nei ricordi, nelle vittorie o nelle sconfitte, quei giocatori con la maglia gialla e il maggiolino sul petto sono sempre stati semplicemente il Sutrio! La squadra del Carnico che più di ogni altra, probabilmente, ha sempre avuto un legame strettissimo con il paese, rispecchiandone l’indole laboriosa e creativa e prendendone spunto per una sponsorizzazione che non si limitava solo al mero aspetto economico. Chiamarsi CAMS o Mobilieri voleva dire portarsi dietro i cromosomi delle persone appunto laboriose e creative. E non è affatto un caso che il Sutrio, quell’irripetibile Sutrio degli anni ’80, fosse composto pressoché interamente da sutriesi. Per questo, forse, quella squadra sapeva trascinarsi in trasferta o far confluire al campo un’intera comunità: Sutrio diventava il Sutrio e, a sua volta il Sutrio rappresentava Sutrio, in una simbiosi perfetta tra giocatori ed abitanti, tra calciatori e tifosi. Trasferte organizzate in piena regola: il “pullman giallo” partiva alla volta di Pontebba, Tarvisio, Ampezzo, seguito da altre macchine, motorini. Spesso anche la banda del paese tirava fuori archi ed ottoni e si metteva in viaggio, ritmando cori e slogan di un tifo bello e genuino, spontaneo e fantasioso. Quando arrivavano quelli di Sutrio, insomma, la festa era assicurata: prima in campo, quando i giocatori la… facevano spesso ai loro avversari e poi dopo fino a tardi, in post partita lunghi ed indimenticabili. Ci sono state altre squadre, altri cicli, altri tifoserie calde ed appassionate ma il Sutrio di quegli anni ha davvero segnato un’epoca.

Le statistiche ci ricordano che i “belli gialli” hanno trionfato nel 1953, 1971, 1974, 1982, 1984, 1985, 1986 e 1988, otto sigilli da ricordare. Ma racchiudere nei numeri, nelle cifre e nello stretto ordine cronologico i protagonisti di quelle vittorie sarebbe riduttivo. Il formidabile Sutrio degli anni ’80 (e quello dei prodromi ad inizio anni ’70) deve essere raccontato da chi lo ha visto dal di dentro. Così, abbiamo pensato di farlo rivivere nel racconto di uno di quei giocatori: Titta Dorotea. Non gli abbiamo chiesto date, numeri, gol, formazioni, record o cose del genere, ma un profilo breve e significativo di tutti quei magnifici giocatori. Flash di memoria, ricordi di getto, raccontati dal cuore prima ancora che dalla testa. 

Titta non fa molta fatica a ricordare i suoi compagni: non fa classifiche di merito, perché secondo lui tutti hanno dato qualcosa di importante ed ognuno di quei giocatori è stato a suo modo un protagonista. 

Il primo pensiero è un omaggio a Leonardo Moro e Danilo Nodale: da loro parte il racconto di Titta, dalla poca fortuna che la vita ha voluto loro riservare. Un pensiero affettuoso a chi, ora, non ha nemmeno la piccola consolazione di vivere nei ricordi quella gioventù trascorsa troppo in fretta. Hanno lasciato affetti e rimpianti, Leonardo e Danilo e Titta li percorre con un sorriso amaro ed uno sguardo triste: ricordarli per primi è un piacere, prima ancora che un dovere. Poi ecco gli altri, che Dorotea prova a farci conoscere:

AULO BEARZIera prima di tutto una persona seria, talmente equilibrato che sembrava impossibile potesse fare il portiere, ruolo che i canoni di una volta volevano pazzo e scriteriato. Fortissimo tra i pali ma un po’ avventuroso nelle uscite. E infatti non usciva quasi mai: convinto di questa sua attitudine, una volta gli tocco la palla indietro di tacco, convinto che tanto fosse lì, sulla linea di porta. Ed invece, quella volta uscì ed era giusto dietro di me: autogol clamoroso! E me ne assunsi in pieno la responsabilità, perché permaloso come era, chissà cosa avrebbe detto!…

ERMES STRAULINOil dopo Bearzi. Con lui già si iniziava ad intravedere il nuovo corso dei portieri, quelli che dovevano essere bravi anche fuori dalla porta. Aveva l’istinto naturale del ruolo, quello che gli permetteva di sapere sempre quello che doveva fare. Un senso del piazzamento straordinario, dote che faceva apparire semplice anche la parata più difficile.

TITTA DOROTEAraccontare sé stessi non è mai semplice. Mi chiamavano “Gerets” e questo già potrebbe essere un indizio, perché proprio come il terzino belga ero più bravo a spingere che a difendere. Mi piaceva la giocata per il pubblico e spesso non rientravo dalle mie sortite offensive, costringendo i miei compagni a ripiegare per me. Sono stato un giocatore corretto, con poche ammonizioni. Solo con Geremia Gonano e Stelio Nascimbeni erano duelli a volte sopra le righe…

ENZO MARSILIO – vedere il “Pipi” ora sempre diplomatico e calato nel ruolo di uomo politico mi fa quasi sorridere. Perché io so come era in campo! Lui non andava mai per il sottile e quando non arrivava con le buone ricorreva alle cattive. Ricordo alcuni suoi interventi da brivido, quelli da difensore di una volta, al quale non si chiedeva il fraseggio ma la prestanza fisica (per usare un eufemismo…).

LEONARDO STRAULINOun mancino di quelli veri: il piede destro serviva per correre e per fungere da appoggio ad un sinistro fulminante. Esterno dotato di buona corsa, non stilisticamente ineccepibile ma senza dubbio continua.

IVANO MARSILIOlui è stato uno dei primi ad essere chiamato “bomber”, un soprannome che in realtà racchiudeva una grande verità, perché lui del bomber aveva davvero tutto il corredo: tecnica, velocità, l’uso di entrambi i piedi e il fiuto del gol, quella caratteristica che non si allena ma si porta dentro come una dote naturale. 

DIEGO MATTIAin Carnia c’è qualcuno che non consoce il “Dede”? Impossibile! Io che l’ho visto da vicino posso dire che era un portento: aveva uno stacco formidabile ed anche se non era altissimo le palle alte erano tutte sue, perché sapeva unire all’esplosività del salto una scelta di tempo perfetta. Giocava da libero, ma se c’era da tenere a bada qualche punta forte lo soffocava in marcatura.

FLOREANO FILAFERRO“Ian” era il classico terzino roccioso: un pochino legnoso, magari, ma affidabile nel controllare l’attaccante che gli veniva affidato. Il ruolo di… difensore se lo portava proprio dentro, perché in diverse circostanze ha preso le mie parti quando ho avuto qualche discussione.

MARCO STRAULINO“Miza” è il classico centravanti d’area. Gioco aereo, tecnica nei sedici metri finali ed il gol sempre in canna. Il fiuto del gol, magari, l’ha smarrito nel tempo, perché ora negli amatori sta sbagliando tutti quei gol che invece ha infilato in una carriera straordinaria. Una volta le doppiette erano la sua specialità, ora invece non ne porta nemmeno una quando va a caccia!…

LORIS STRAULINOgemello di Marco, “Lollo” aveva la geometria applicata ai piedi. Era un regista classico, la mezzala di qualità che andava di moda in quegli anni. Non ha segnato tanti gol (preferiva l’assist geniale per gli altri), ma quei pochi che ha fatto sono stati belli ed importanti.

ELVIO DOROTEA  – una freccia! Aveva il turbo nei polpacci che scaricavano a terra una velocità incredibile. Giocasse oggi uno così si farebbe beffe di 4-4-2 o 4-3-3, perché con lui ci sarebbe solo uno schema: palla lunga, spizzata di testa del centravanti e lui di sicuro sarebbe il primo ad arrivare sul pallone. Una cosa di lui non l’ho mai capita: ma come faceva a tirasi su le maniche della maglia mentre correva? Mah…

ROBERTO STRAULINO“Stic” potrebbe essere considerato un po’ l’erede di Dorotea: un po’ meno veloce, magari, ma con le stesse caratteristiche. Maggiore tecnica, forse, ed un fisico diverso, grande interprete comunque di quel ruolo di ala che ora chiamano esterno, togliendo un po’  di fascino, perché l’esterno spinge, mentre l’ala … volava!

MARCO SELENATIimplacabile. E’ l’aggettivo giusto per un difensore al quale era praticamente impossibile sfuggire. Certe volte, quando ripenso a quegli anni, cerco di ricordarmi l’attaccante che sia riuscito a segnare un gol con lui alle costole. Beh, davvero non me ne viene in mente nessuno!

NICOLA STRAULINOil “Tino” sapeva unire eleganza e cattiveria agonistica. Quando usciva palla al piede aveva idee chiare e pulizia di tocco, ma all’occorrenza dimenticava lo stile per diventare l’ostile. E la differenza, credetemi, è molto di più di quanto non dica un semplice apostrofo!

ANTONIO NODALE“Toni” era la classica mezzala che andava tanto di moda in quegli anni: ordinato e geometrico non disdegnava le puntate verso la porta ed era particolarmente abile e freddo nei calci piazzati. 

EDDJ CICUTTIlui aveva il tritolo  nei piedi. Tirava botte da paura anche da 40 metri e prendeva quasi sempre la porta. Potenza e precisione. Qualche infortunio di troppo ne ha condizionato una carriera che avrebbe potuto essere ancora più ricca di soddisfazione. Di lui ricordo le bordate tremende ed un infortunio: si sbilanciò dopo aver calciato e cadendo male si fratturò l’avambraccio. Si rialzò senza fare una piega, come se non fosse successo nulla.

ORAZIO NODALElo chiamavano “Berce”, in onore di Bercellino centrale difensivo della Juventus di quei tempi. A Sutrio non stette molto, perché andò a giocare in serie C, uno bravo insomma, con tutte le caratteristiche necessarie per essere un grande difensore: spietato in marcatura e poi sempre concentrato e con un senso dell’anticipo che gli veniva naturale.

Ma non si può parlare di questo favoloso Sutrio senza ricordare altre persone altrettanto importanti: come FRANCO QUAGLIA. Lui era “il” presidente, un signore d’animo e di indole, capace di organizzare una società vincente dall’alto di una conduzione che era davvero familiare. Era il padre di tutti e per tutti aveva una parola o un pensiero. E poi gli allenatori, come OSVALDO PARUSSATTI, tecnico capace di formare prima l’uomo del giocatore. E come non parlare di  ENRICO LONDERO? Secondo me lui è stato il primo vero allenatore del Carnico: era un professore di ginnastica e quindi riusciva a preparare allenamenti specifici, senza trascurare l’aspetto psicologico, affinato dal rapporto quotidiano con gli studenti. Ma anche il sutriese ELIO DE REGGI, il popolare “Ciute” seppe portare tanto a quel gruppo. Aveva la capacità di saper tirare fuori il meglio da ogni giocatore, senza chiedergli niente di più di quello che poteva dare. 


“IL”
 PRESIDENTE

Un centinaio di metri più in là della casa di Titta Dorotea c’è il bar di Franco Quaglia, quello che lo stesso Dorotea ha definito “il” presidente. Incontriamo Franco nella sua casa: qualche problemino di salute non ne ha scalfito minimamente l’ospitalità e la disponibilità. Parlare di quei tempi è per lui un ricordo vivo e piacevole. Non serve fare domande: “il” presidente ha tutto lì, a portata di memoria.

Ancora mi chiamano presidente! Beh, è una bella soddisfazione, vuol dire che ho lasciato un ricordo importante. Certo, le vittorie aiutano a mantenere freschi i ricordi, ma quello era un gruppo davvero speciale e forse anche se avessimo vinto qualcosa di meno saremo qui a parlarne. Credo di aver dedicato al Sutrio una parte importante della mia vita; l’ho fatto con passione ed entusiasmo, perché sapevo di fare qualcosa per il mio paese. La soddisfazione più grande, infatti, è stata quella di aver costruito una squadra formidabile con giocatori tutti di Sutrio. Per me erano tutti come figli e per questo non capisco quando qualcuno mi definisce un signore: non si è signori perché si mette mano al portafoglio e basta. Questo fa parte delle regole: un presidente “deve” pagare una bicchierata, una cena o distinguersi in talune occasioni. Io mi sento un signore perché tutto questo non lo sentivo come un dovere ma come un piacere. Mi sentivo un padre e per me tutti i giocatori erano uguali, anche se, come tutti i presidenti, avevo un pupillo. Il mio era Leonardo Straulino. Non chiedetemi perché, ma con lui c’era un legame davvero speciale: giocava poco, era spesso era una riserva, ma aveva valori umani altissimi, perché intendeva il gruppo esattamente come lo intendevo io. 

Tutte le partite giocate dal “mio” Sutrio me le porto dentro, quasi mi sembra di rivedere azioni e gol, rivivendo quasi le stesse emozioni. Una però mi è rimasta nel cuore: era la penultima giornata del campionato 1971 ed a Sutrio arriva l’Ampezzo, secondo in classifica dietro di noi e staccato di un punto. E’ la partita decisiva, insomma, perché nell’ultima giornata entrambe avevamo un impegno facilissimo. Finì 2 a 2, grazie a due rigori trasformati per noi da “Toni” Nodale. Quelli di Amezzo erano inviperiti, soprattutto quando dalla tribuna la fervida fantasia dei nostri tifosi inventò uno slogan estemporaneo:”Un rigore di qua, un rigore di là e l’Ampezzo nel c… ce l’ha!”. Un coro che adesso fa sorridere ma che all’epoca era davvero inusuale. Questo per dire che forse anche i nostri tifosi erano … all’avanguardia, senza trascendere mai da un comportamento corretto e sportivo. 

E le trasferte? Un avvenimento! Una domenica si doveva andare a Pontebba ed io pensai bene di fare preparare una maglietta gialla col maggiolino davanti per ogni tifoso che fosse venuto in trasferta. Davanti al mio bar inizia la distribuzione delle maglie e quando vedo Rino Dorotea con una maglia attillata (saranno almeno due taglie in meno…) ed il maggiolino sul petto dilatato a dismisura, mi viene spontaneo dirgli: “Rino, ce as tu aì davant? Un alligator?”E giù risate, perché quelle trasferte erano soprattutto un grande momento di aggregazione, il modo più bello e spontaneo per tenere tutti il paese unito attorno alla squadra che lo rappresentava. Ora i tempi sono cambiati: io seguo sempre il Carnico, leggo i giornali ed ascolto la trasmissione radiofonica la domenica. Sono ancora una grande appassionato, ma non so se in questo calcio, ora, mi ci ritroverei. E’ un calcio più complicato, dove tecnica, tattica, metodologie d’allenamento sono diverse. Ora si parla di possesso palla, quando invece nel mio Carnico il motto era “Bale  lungje,  bale da guado”. L’ultimo ricordo è per quel famoso campionato vinto a tavolino. Ero convinto di quel ricorso, perché il regolamento parlava chiaro. Il tesseramento di un militare scadeva automaticamente due mesi dopo il congedo. Il militare in questione si congedò a giugno; noi giocammo contro la sua squadra in settembre e lui era in campo. Non poteva. La legge è legge!”

“PICOIO”

Parlando di quegli anni prima con Dorotea e poi con Quaglia vieni fuori anche il nome di “Picoio”. Chi era “Picoio”? Legarlo a quel Sutrio, forse, sarebbe riduttivo, perché “Picoio” è stato un patrimonio del Carnico. Il suo vero nome era Vittorio Nodale, ma tutti lo chiamavano con quel soprannome. Lui ha saputo rappresentare la sintesi perfetta del vero significato del Carnico: una cosa seria che va presa con allegria. E lui ci è riuscito, perché viene ricordato per doti tecniche e per una simpatia davvero fuori dal comune. Già il fatto che abbia giocato da professionista a Canicattì è emblematico. Il nome della cittadina siciliana ha spesso il significato di un posto irreale, dove tutti almeno una volta sono stati con la fantasia. Ed invece lui ci è andato davvero e senz’altro anche laggiù avrà lasciato ricordi che vanno da un passaggio smarcante ad una seriata goliardica. “Picoio” ce lo facciamo ricordare dalla moglie Rita. Abbiamo scelto lei perché ci raccontasse l’uomo e perché “certificasse” in qualche modo marachelle e fughe, serate memorabili (per lei, magari, un po’ meno…) e tutta la vita, breve ma intensa, di questo personaggio. Allora, Rita, parlaci di “Picoio”.

Forse avrei dovuto capire da subito con chi avevo a che fare… Non eravamo ancora sposati e quello che sarebbe diventato mio marito giocava a Tolmezzo. A quell’epoca andavo a vedere le sue partite: durante una di queste un signore entrò in campo e rincorse Vittorio; appena lo raggiunse gli rifilò due bei ceffoni. Da lontano non riuscii a riconoscere in quell’invasore solitario e violento il mio futuro suocero. Soltanto dopo seppi che quelle due sberle erano dovute al fatto che Vittorio non si faceva vedere a casa dal venerdì ed il papà giustamente era preoccupato: “Tu as nome amis e balon tal cjaf!”, gli ripeteva anche dopo la partita. Già, “amis e balon” erano le sue grandi passioni, quelle con cui avrei dovuto dividerlo per il resto della vita. Quei due schiaffi, però, non sortirono effetti particolari perché Vittorio continuava a sparire anche da sposato. Come quella volta che accompagnò a Roma un dirigente del Carnico: lui il giorno dopo tornò, ma da solo. Perché Vittorio pensò bene di andare a salutare gli amici di Canicattì. “Ero a metà strada – si giustificò al ritorno – mi è sembrato normale andarli a trovare!”. Ma lui non si accontentava delle fughe in Italia e con gli anni si specializzò anche nelle sortite all’estero. A parte la vicina Austria (visitata con frequenza quasi settimanale…) mi viene in mente un viaggio in Polonia. Eravamo stati a passare un fine settimana sul lago di Garda e non appena rientrati a Paluzza lui non disfece nemmeno le valige e partì alla volta dell’Est. Ho detto valige perché se ne andò con la sua e con la mia! Dentro c’era biancheria intima, calze e qualche maglietta: esche appetitose, all’epoca, per gite di piacere nei paesi dell’Europa orientale… Si presentò a casa con un grande sorriso ed un pacchetto in cui era incartato un bel mandorlato: doveva essere il suo strumento di pace ed invece volò dritto dritto dalla finestra!

Quando è nata nostra figlia Manuela i festeggiamenti sono andati avanti tre mesi: avevo partorito da due giorni e di Vittorio all’ospedale nemmeno l’ombra! Si presentò il terzo giorno, giustificandosi con il fatto che aveva dovuto festeggiare con gli amici… 

Ma le fughe non riguardavano solo la casa, perché ne architettò due anche dall’ospedale: la prima dall’ospedale di Pordenone. Era ricoverato laggiù per accertamenti: la domenica pomeriggio l’Udinese giocava in casa ed approfittando della complicità di un medico appassionato di calcio Vittorio andò a vedere la partita. Tutto bene, la domenica, quando i due rientrarono in ospedale. Ma il giorno dopo, altra fuga: stavolta, però, nessun medico compiacente e la cosa comportò una denuncia. Più curata, invece, fu l’evasione dall’ospedale di Tolmezzo. Vittorio era lì da qualche giorno ed io, memore di quanto successo tempo prima, gli portai a casa i vestiti, lasciandogli solo il pigiama. Quando un pomeriggio me lo vidi arrivare a casa con una tuta del Sutrio non sapevo se scoppiare a ridere o andare su tutte le furie. Era successo che la mattina avevano ricoverato un giocatore del Sutrio e mentre questi faceva analisi, Vittorio gli prese la tuta dall’armadietto e scappò in tenuta sportiva! 

Potrei continuare a raccontare decine di episodi, partenze e ritorni, baruffe e riappacificazioni, nervi tesi e sorrisi. Ora che Vittorio non c’è più, però, ho capito che non avrei potuto far niente per cambiarlo. Lui era così, simpatico e a volte irresponsabile, fissato con gli amici ed il pallone. Non so nemmeno se essere amareggiata, perché, in fondo quello stesso ambiente che tanto amava è stato un po’ la sua rovina. Ha vissuto poco, è vero, ma forse ha vissuto così come voleva e ora posso dire che se fosse stato diverso probabilmente avrebbe vissuto di più, ma magari sarebbe stato meno felice e non sarebbe lo stesso “Picoio” che ora tutti ricordano con affetto e simpatia. 

(nella foto tratta dalla pagina Facebook dei Mobilieri, il portiere Ermes Straulino in presa)

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