di MASSIMO DI CENTA
Dal libro “60 anni di Carnico”, uscito nel 2010, riproponiamo il capitolo nel quale Stefano De Antoni, attuale sindaco di Comeglians, raccontava la sua avventura nel Carnico, prima in campo e poi in panchina.
Il calcio giocato è durato fino a 28 anni: ero portiere ed ho difeso la porta di Comeglians ed Ardita. Mi dicono fossi un portiere discreto, abbastanza regolare, uno di quelli che non fa i miracoli, ma para il parabile. A 28 anni, appunto, mi vengono fuori dei problemi ad un ginocchio. Sono costretto a stare molti mesi inattivo e appena inizio a stare meglio, mi rendo conto che devo fermarmi per raggiunti limiti di… peso! Il calcio però mi piace troppo e allora decido di fare l’allenatore: sostengo immediatamente il corso e torno nel mio Comeglians, quasi a risarcire la società biancorossa per quella carriera così breve. Naturalmente vado a saldare il mio “debito” anche con l’Ardita ed insomma la gavetta la faccio con le due squadre con le quali avevo giocato. A 32 anni, improvvisamente, arriva la chiamata dell’Ovarese. La cosa mi stupisce non poco: per noi di quella zona, l’Ovarese è la società di riferimento, quella più nobile e davvero non so spiegarmi il motivo per cui vengono a cercare proprio me, allenatore pieno di entusiasmo, sì, ma inesperto e con tante cose ancora da imparare. Arrivo ad Ovaro e trovo già una squadra solida e ben strutturata; in più arrivano Pierpaolo Screm ed Alessandro Di Qual. Giocavamo un buon calcio, ma paradossalmente finimmo col pagare l’incompatibilità tattica dei due acquisti, che erano ottimi giocatori, ma avevano caratteristiche simili. La stagione successiva Screm decise di provare altre avventure e così rimanemmo con una squadra composta esclusivamente da ragazzi di Ovaro. Una bella soddisfazione per una società che da sempre sosteneva sforzi enormi per portare avanti il settore giovanile. Era il 1987 e sentivo di avere una grande squadra, una squadra che alla fine vinse il campionato. Segreti? Beh, il fatto di possedere un organico con valori tecnici importanti e poi il gruppo. Eravamo davvero una grande famiglia e non è la solita frase retorica: eravamo amici in campo e fuori. Era la dote che mancò alla nostra grande antagonista di quell’anno, il Mercato Tarvisio. Loro avevano preso tanti bravi giocatori e tecnicamente forse erano superiori a noi. Andavano anche d’accordo ma non erano un gruppo: ecco, noi riuscimmo a colmare il gap tecnico nei loro confronti facendo leva sulla grande coesione. Possiamo dire, però, che quello scudetto fu una mezza sorpresa per tutto l’ambiente. L’anno dopo forse giocammo anche meglio ma ci mancò qualcosa, piccolissimi dettagli, per ripeterci: ci arrendemmo ad un grande Sutrio e finimmo secondi. Il 1989 invece rappresentò lo scudetto della consapevolezza: eravamo la squadra più forte, era venuto anche Manuele Ferrari e ci presentammo alla partenza consci fino in fondo del nostro valore. Il ricordo più nitido? La vittoria contro il Trasaghis: loro, come, l’Ardita avevano allestito uno squadrone eppure arrivammo allo scontro decisivo nel girone di ritorno avanti di tre punti (la vittoria ne valeva due, all’epoca). Finì con un trionfale 4 a 1 per noi e il risultato forse ci stava anche un po’ stretto. Quel pomeriggio c’era il pienone, la stessa affluenza di pubblico che c’è nelle finali di Coppa Carnia.
Gli scudetti di Cedarchis sono stati molto diversi, ma ho sempre dovuto “difenderli”. La maggior parte delle persone crede che vincere a Cedarchis sia una passeggiata ed invece non è così. Ci sono equilibri delicatissimi da rispettare, gente dalla personalità molto spiccata. Quando qualcuno prova a sminuire i due titoli giallorossi, dico che già il fatto di essere stato comunque scelto ad allenare una squadra tanto importante è una bella soddisfazione. Quando sei al chiuso degli spogliatoi, mica è semplice confrontarsi con gente come Tassotti, Rella e compagnia. Voglio raccontare un episodio per far capire cosa significhi allenare una squadra come il “Ceda”: io di solito gioco a 4 dietro, ma una delegazione di senatori, dopo un allenamento, mi fece presente che viste le caratteristiche di alcuni difensori sarebbe stato meglio giocare a 3. In effetti il discorso poteva anche essere giusto, ma mi ci voleva qualità sulle fasce. Ebbi la felice intuizione di mettere Patrick Adami sull’out. A detta di molti, Patrick risultò il miglior giocatore del campionato! Da un confronto di opinioni insomma, nacque un aspetto positivo dove anch’io però c’avevo messo del mio.
Anche a Sutrio l’ambiente non è dei più semplici: la gente è seria, appassionata e collaborativa, ma vive nei continui paragoni del grande Sutrio che fu. E questo, naturalmente, non aiuta. Il primo anno che arrivai, all’inizio del girone di ritorno avevamo una decina di punti di vantaggio sul Cedarchis e la gente cominciò davvero a pensare al titolo. Ma nel ritorno successe di tutto: persi due giocatori fondamentali (Gilberto Buzzi e Filippo Durigo) nel centrocampo e la squadra privata da chi le dava fantasia e nerbo si sciolse, rimontata proprio dal “Ceda” , aiutato anche dalla formula che quell’anno, per la prima volta, prevedeva nel nostro campionato tre punti a vittoria. Seguirono anni difficili, caratterizzati da rapporti sempre meno sereni con la società. Alla vigilia di una partita decisiva con l’Illegiana rimasi senza attaccanti. Una sera a casa, parlando con mia madre (con la quale mi confidavo di tutto) le dissi a mo’ di scherzo: «Mamma, ma chi metto col numero 9?». E lei serissima: «Metti Patrick, no…». Patrick era Selenati e mia mamma basò le sue convinzioni esclusivamente su un criterio di simpatia. Comunque volli darle retta e feci benissimo: vincemmo 2 a 1 e Patrick Selenati colpì un palo, fornì l’assist per il primo gol e realizzò il secondo!
Quella di Villa resta l’esperienza meno gratificante: da parte mia posso rimproverarmi solo la colpa di non essere riuscito a creare una gruppo, ma c’è qualcosa che proprio non sono riuscito a mettere a fuoco nella mia avventura al “Campo dei Pini”.
Ed infine eccomi a Cercivento: gli amici di Sutrio che conoscono l’ambiente del “Morassi”, mi avevano pronosticato al massimo un paio di mesi di campionato visto il clima del “Curçu”. Ed invece è andata bene, perché sono riuscito a portare un po’ di calma in quell’ambiente per certi versi elettrico.
Cosa mi resta dal punto di vista umano in tutti questi anni nel Carnico? La soddisfazione di aver allacciato ed approfondito rapporti umani importanti. Diego Mattia, uno dei giocatori storici nella storia del calcio della montagna, mi ha confessato che gli sarebbe piaciuto molto essere allenato da me, ma non solo per le doti tecniche. Una specie di laurea ad honorem, insomma.
La delusione più grande? Quella che si ripete ad ogni campionato, quando sono costretto a lasciare fuori qualcuno e non riesco a trovare un dialogo. Quando con un giocatore i rapporti sfociano quasi nell’indifferenza, per me sono sconfitte.
In tanti a volte mi chiedono: ma cosa è il Campionato Xarnico? Non so dare una definizione: per me il Carnico è dieci, cento, mille cose e mi ha aiutato a crescere e diventare uomo. Mica poco…